Cinema, Cooltura
Dogman, il canaro che perse la pazienza
Il nome risuona come un supereroe ma Marcello è un piccolo uomo tranquillo destinato a infiammarsi come un cane di paglia. Arriva in Dogman di Matteo Garrone (al Bellarmino) portandosi dietro la fama del Canaro della Magliana.
Vero nome Pietro De Negri, figura molto più ambigua del Marcello garroniano, che tinse di rosso efferato il nero delle cronache italiane dell’ormai lontano 1988. Roba di quando eravamo ragazzi – e molti di voi manco erano nati…. – e l’immaginario nazionale si fece turbare da questo tizio che, dopo aver subito angherie da un bullo di quartiere a nome Giancarlo Ricci, perse la pazienza, e con quella anche la testa, lo attirò con uno stratagemma nella sua bottega da tosacani di quartiere, lo chiuse in gabbia e lo seviziò terribilmente, sino a procurarne la morte. Se ne parlò tanto e quelli della mia età lo ricordano bene questo fatto, forse perché era un po’ l’altro piatto – quello spietato – della bilancia emotiva nazionale, il perfetto contrappeso dell’incidente di Vermicino che quasi dieci anni prima (era il 1981) tenne l’Italia in apprensione attorno al pozzo in cui trovò infine la morte il piccolo Alfredino: il canaro della Magliana segnava il passo di un cambiamento sociale storico, l’Italia con la coscienza scossa attorno a un pozzo di periferia lasciava il campo all’Italia che leggeva i dettagli raccapriccianti di un omicidio orribilmente violento…
Questa è la storia, ma Dogman è altra cosa, ché Garrone ne fa uno scampolo della sua poesia sbilenca da umanità decaduta: Marcello, il canaro del film, è un omino che pare un Benigni antigrottesco (e il Roberto nazionale avrebbe dovuto essere, nel 2005, il primo interprete del film), separato dalla moglie ma attaccato alla figlioletta, chiama “amore” tutti i cani di cui si prende cura, si fa accettare dalla gente del quartiere. Alle spalle però ha sempre l’ombra di Simoncino, bullo di periferia, spacciatore e ladro di professione, violento e sopraffattore istintivo, che lo costringe a fargli da palo e lo mette nei guai. Il resto è storia, o meglio cronaca, ma non c’è da aspettarsi una ricostruzione fedele nel segno dell’efferatezza (quella magari verrà con l’imminente film di Sergio Stivaletti ispirato al medesimo fattaccio): Garrone insiste piuttosto sulla nettezza dei contorni poetici del suo ritratto d’un uomo posto dinnanzi all’immagine che ha di sé, tutta una questione di ruolo nella commedia della vita quotidiana, di rapporto con il coro del quartiere. Dogman staziona con decisione nel realismo disambiguo del cinema di Garrone, tutto intriso di una moralità che non è mai moralistica rispetto al giudizio sui suoi personaggi. Marcello è un poveruomo, un debole non per carenza morale ma per mancanza di forza e di volontà: un Pinocchio alle prese con il suo Lucignolo personale…
La solitudine di un numero qualunque, che raccoglie e ridice un po’ tutte le storie garroniane – le estati romane, gli Imbalsamatori, gli stralci di Gomorra, le fughe nel Reality, il Pinocchio a venire… – ma mettendoci dentro un’amarezza raddolcita di cui proviamo compassione e da cui usciamo turbati intimamente. Marcello è un’anima in pena incrudelita dal suo habitat, il perfetto contraltare della sorda e stolida violenza di Simoncino, ammasso di carne senza coscienza che raccoglie in sé tutta la violenza di quel mondo. Marcello Fonte è figura naturalmente poetica e il premio meritato ricevuto a Cannes potrebbe essere l’inizio di un bel cammino. Di fronte a lui un Edoardo Pesce che anestetizza la rabbia con immediata indifferenza.